Pierluigi Billone
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Intervista: Il *Suono è la mia materia (2010)


Intervista con Pierluigi Billone e Laurent Feneyrou

(Le son est ma matière)

Laurent Feneyrou


Articolo originale in francese

L.F. Lei ha studiato con due maestri del suono, Salvatore Sciarrino et Helmut Lachenmann. Cosa l ́ha condotto ad avvicinarli e che cosa le hanno insegnato?

P.B. Ho frequentato Sciarrino nei primi anni ́80. In quegli anni, a Milano, il suo lavoro era per molti studenti un particolare esempio di libertà creativa. Sciarrino custodiva un “segreto”: una sensibilità e un'attenzione che creano liberamente i propri oggetti e un formalismo molto rigido e astratto (il suo interesse per Mozart, gli influssi di Ravel). Una volta compreso questo però era giusto e necessario allontanarsi.

Nei primi anni'90 ho frequentato i corsi di Lachenmann, a Stuttgart. Sapevo di dover far crescere dentro di me un lato più riflessivo. Un “pathos” della riflessione, che appunto riconoscevo in forme diverse in Lachenmann, in Stockhausen, in Xenakis e in Nono.

Un incontro e un rapporto per me importante e decisivo. Lachenmann e'un vero erudito e una persona dall'orizzonte intellettuale amplissimo e aperto. Anche Lachenmann custodiva un segreto da comprendere (diverso da quello di Sciarrino): qualsiasi vibrazione può essere un centro di relazioni, ma devi aprirti ad ascoltarlo (e ascoltare il tuo ascolto...).
Sciarrino e Lachenamnn sono due rapporti personali e professionali diretti. Ma l ́influsso più profondo e decisivo a tutti i livelli mi viene da anni di studio individuale delle musiche tradizionali extraeuropee (soprattutto quelle solistiche e le musiche rituali), il Free Jazz degli anni ́60 e i suoi sviluppi successivi, il Rock degli anni ́70 (che ho anche suonato), la musica solistica sperimentale, i vertici della canzone d ́autore di qualsiasi estrazione, e – anche se può sembrare inusuale- dallo studio dei lavori di Andrej Tarkovskij.

 

L.F. Lei vive attualmente a Vienna. Quali ragioni l ́hanno condotta lì?

P.B. Dal 1991 al 2000 ho vissuto e lavorato in Germania. Nel 2000 sono ritornato in Italia e ho constatato che per me non c ́era alcuna possibilità di lavorare come compositore.
Nel 2004 ho lasciato il mio paese una seconda volta. Ho preferito Vienna dove avevo dei forti legami personali e professionali con i musicisti del Klangforum Wien e dove c ́è una intensa e interessante vita musicale. Considerando l’attuale situazione culturale e politica italiana, opprimente e disgustosa, ho fatto la scelta giusta.

 

L.F. La mano ha nel suo lavoro un ruolo essenziale, già nei suoi titoli e nella scrittura per percussioni, suonate con le dita, il palmo, le articolazioni, usate tanto quanto le bacchette. Ma lei evoca anche una “intelligenza della mano”. Cosa intende con questa espressione?

P.B. La mano è un luogo privilegiato di contatto con il mondo . Ogni essere umano è e sa questa esperienza. L'attività della mano è un esercizio muto (*Merlau-.Ponty), avviene a un livello pre-cosciente e a una profondità che l ́esercizio di un controllo consapevole potrebbe solo disturbare, deviare o ridefinire (ma a un livello meno profondo). Si tratta quindi di un modo particolare di contatto con il mondo (a meno di voler considerare la mano, un semplice utensile a disposizione del cervello: prospettiva sterile). La mano (come polo del corpo intero), per esempio, apre ed entra in contatto con stati del suono che nessuna teoria potrebbe mai immaginare. Lo stesso vale per legami e relazioni possibili.
Dato che per un compositore la mano che scrive (pensa) e quella che suona sono la stessa, si pone la domanda di un equilibrio e di una unificazione: questa accade quando la dicotomia pensiero/pratica cade.
A questo punto il “pensiero” si confonde nel contatto con le cose e perde i propri limiti (capacità di controllo e definizione) e la “mano” incontra e crea legami, ma la cultura occidentale in genere rifiuta questa prospettiva.
“Intelligenza della mano” indica allora quest’unificazione (come domanda aperta).

 

L.F. Qual è , in questo contesto, lo statuto di gesto nella sua scrittura?

P.B. Gesto e'oggi (secondo me) una nozione ambigua (Stravinskij o Webern non l ́avrebbero capita), che è entrata recentemente nel vocabolario musicale provenendo da quello delle arti visive e plastiche. In un contesto meccanico-acustico (trasformazione) secondo me spesso perde senso.
Per questo preferisco non usare il termine, e quindi non rispondo direttamente. Faccio solo delle precisazioni generali indirette.

  1. Il corpo nel mio lavoro è la matrice dinamica di ogni possibile movimento (e quindi rifiuta quelli che sente estranei) ma le sue azioni o ritmi elementari non diventano necessariamente modello per segni stilizzati (il respiro, l ́impulso, il contatto etc.). Anzi, a me interessa ampliare il più possibile i limiti ritmici e motori del corpo, quasi confondere i limiti. Quest'appartenenza alla vita ritmica del corpo (anche se in alcuni casi non immediatamente riconoscibile) fonda la possibilità di una comprensione immediata allo stesso livello: il corpo corrisponde/incontra qualcosa che potrebbe fare.Questo primo livello di contatto è essenziale.
  2. Molte azioni strumentali possono essere trasposte e intercambiate con risultati sorprendenti (creando legami e relazioni).
  3. Effettivamente molte azioni del corpo che producono suoni appartengono contemporaneamente a contesti di realtà differenti, così come il suono non e ́ possesso esclusivo della musica. Lavorando sulla flessibilità, la doppiezza e l ́ambiguità di queste azioni è possibile creare punti di contatto preziosi fra realtà differenti: in questo caso mi interessano le azioni vicine a quelle della ritualità religiosa o delle pratiche dei mestieri artigianali, ma queste azioni non vengono mai isolate ed esibite, al contrario, vengono integrate con la massima organicità. Anche questo è un modo di forzare i limiti del corpo (e del contesto).
  4. In modo complementare m’interessano anche suoni e stati del suono, che accadono in apparente assenza di movimento (Mani.Long b. 588- l ́onda di voci in totale assenza di azione visibile) o il trasferimento di azioni strumentali nel corpo (Mani Long b. 636- il “coro” strumentale).

 

L.F. Una delle caratteristiche dei suoi lavori che risaltano all ́ascolto è il tempo del loro dispiegamento. Penso soprattutto a Mani. Long: la durata che cosa dovrebbe rivelare, del suono e della forma?

P.B. Io non penso il suono separato in parametri e quindi non distinguo la durata come una componente separabile.
Un suono dura tutto il tempo che è necessario alla sua esistenza (quale che sia) e al gioco delle sue relazioni. Chi decide questo? Secondo quale principio?
30 anni di studio, pratica, disciplina e lavoro.
L ́arco di esistenza di un suono e la sua possibilità di relazione viene ogni volta sperimentato. Il *Suono è la mia materia. Io sono in rapporto con il suono, che è la dimensione privilegiata secondo cui incontro le cose e il mondo. Ogni volta quindi metto in gioco tutta la mia confidenza con questa dimensione. Se sbaglio, si tratta di un errore globale che anche in questo caso indica il mio rapporto fondamentale con il suono. Attraverso questa esperienza io divento consapevole della mia appartenenza alla realtà ritmica in cui esisto.
La misura (la qualità e il senso) di questa esperienza del suono è completamente legata alla realtà (musicale in senso stretto e sonora in generale) di cui sono parte, e quindi diventa una traccia per comprenderla.

A questo scopo:

  1. Non pongo limiti iniziali a quello che la mia sensibilità può farmi incontrare.
  2. Conosco e limito l ́influsso ritmico momentaneo dell ́ambiente su di me (e quindi so quale limite “normale” e comune sto superando quando qualcosa sembra “troppo lungo”)

 

L.F. L'ascolto dei suoi lavori implica non solo l'orecchio, ma l'intero del corpo, il suo respiro. Ricerca effettivamente una tale intensità fisica dell'esperienza?

P.B. Certamente. Non solo un’intensità fisica, ma una reale profondità di contatto. In presenza del suono il corpo (con il suo gioco di ritmi interni) si armonizza (o reagisce) completamente con quello che accade. Si tratta di un contatto globale e indivisibile, che però nell’abitudine dell ́ascolto della musica classica occidentale avviene ormai in una condizione particolare: tutta la corrispondenza motoria del corpo al suono è attenuata o inibita.
Nel Medio Evo in occidente l ́ascolto era unicamente “ascolto della Musica Sacra” ed era indistinto dall ́ascolto della parola liturgica.
Ora è molto vicino a una contemplazione visiva (completamente passiva) esercitata da un punto fisso. La riproduzione meccanica del suono ha completato il processo di svuotamento della esperienza.

In questa condizione sembrerebbe ovvio che l'ascolto sia solo lasciare funzionare le orecchie per permettere al cervello di entrare in contatto con il suono. Questa prospettiva è completamente fuorviante e indica una perdita grave di sensibilità e profondità nel rapporto con le cose.
E' come se nutrirsi (il rapporto consapevole e attivo con il cibo) fosse ridotto ad aprire la bocca, restare immobili e lasciare entrare. E' evidente che il suono nella nostra cultura classica occidentale è ormai pensato come “non connesso con le esigenze della sopravvivenza”. E quindi è incontrato con facoltà corporee di secondo grado (e rischia di restare una esperienza di secondo grado), è questo che genera una diffusa indifferenza.

La definizione di ascolto come “facoltà mentale di udire suoni organizzati dall ́uomo” di cui parlava Stockhausen agli inizi degli anni ́50 e ancora nel 1972 è ridicola, e le cose non sembrano migliorate. Le culture tradizionali sono molto più profonde.

 

L.F. Lei fa ricorso di sovente agli strumenti gravi – in particolare il Clarinetto basso, il Fagotto o il trombone. Che cosa denota questo uso di timbri cosí gravi?

P.B. Io non ho un particolare interesse per strumenti estremi gravissimi (Clarinetto Contrabbasso, Tuba etc.) o acutissimi (Ottavino etc.).
Il Trombone, Clarinetto Basso etc. sono considerati gravi solo nell'orchestrazione classica di scuola. Nella pratica è differente.

Il mio riferimento generale è spesso il canto: una voce umana maschile dal registro amplissimo, quindi un registro grave molto ampio e un registro acuto senza limiti prefissati (penso a Spiros Sakkas interprete di Xenakis, ai cantori nomadi della mongolia, a Bobby Mc Ferrin, etc) In questo modo lo strumento si libera dal registro-ruolo assegnato dalla tradizione e diventa uno spazio estremamente articolato che contiene almeno le due polarità fondamentali minime (il grave “maschile”, l'acuto “femminile” e molte altre). In questo caso un Violoncello può essere anche un Violino, un Clarinetto basso anche un Clarinetto piccolo, ma non il contrario.

Poi ci sono dei motivi strettamente tecnici e acustici, ad esempio: uno strumento grave e'ovviamente più'ricco di armonici e di vibrazioni disomogenee che possono essere manipolate, il suo registro acuto e'sempre particolare e instabile, ha delle zone “sorde” molto preziose etc. Nello stesso senso uso due strumenti diversi per formarne un terzo nuovo (Tromba + Oboe = ”Trompoboe”), o anche due strumenti identici per svincolare il suono dal condizionamento meccanico di una sola fonte.

 

L.F. Direbbe che la sua musica si fonda su delle energie da cui nascerebbe la forma?

P.B. Io concentro energie, letteralmente:
creo dei centri di attrazione per energie sonore e la loro vita di relazioni possibili. Nella vita iniziale del suono incontro e riconosco delle linee di forza, delle tendenze riconoscibili, dei legami possibili che diventano i primi punti di forza di una costruzione: e'come una legge da conoscere e rispettare. Nel momento in cui la conosco posso usarla a scopi diversi: il principio costante di trasformazione lega ogni stato ad un altro, ma, grazie a catene di trasformazioni o a movimenti istantanei di trasformazione ciò che viene legato può essere diverso e lontanissimo. Gli stati e le situazioni che accadono restano riconoscibili come appartenenti alla natura iniziale del suono ma talvolta si tratta di apparizioni completamente artificiali, astratte e visionarie.

Si crea quindi un paradosso apparente: tutto procede per trasformazione evidente verso un grado successivo, ma quello che appare – ad un primo ascolto – può sembrare estraneo. Come se un uomo camminasse ininterrottamente ma in uno spazio che muta: a conclusione di un passo, che resta la distanza minima riconoscibile e di riferimento, il piede va ad appoggiarsi su uno spazio ignoto.

Quindi abbiamo un “procedere”, che mette in contatto dei “momenti”, che sono “stazioni”, che fanno apparire delle gerarchie e relazioni, che mostrano un ordine e una gerarchia spaziale. Questo è reale, e poggia sull'esperienza del passo e del cammino che tutti conosciamo e per questo possiamo comprendere senza nessuna difficoltà all'ascolto, ma il linguaggio descrittivo fatica a catturarlo, e quindi crede che sia una delle tante metafore...

E ́un problema del linguaggio: deve modificarsi fino a poter dirlo (Merlau-Ponty era capace).
Questa sensibilità mi viene direttamente dallo studio della tecnica di Andrej Tarkovskij (in Stalker, per esempio).

 

L.F. Il silenzio ha qui il ruolo di un'apertura?

P.B. Intorno al silenzio c' é troppa retorica e molte cose sono già state dette e fatte. Probabilmente non aggiungerei niente di particolare od originale in questo momento.

 

L.F. Nella sua scrittura strumentale i modi di suonare tradizionale costituiscono se non delle eccezioni, per lo meno, qualcosa di estraneo. Come ricerca le nuove tecniche strumentali e come le inscrive in un linguaggio musicale?

P.B. Io lavoro incessantemente a contatto diretto con lo strumento.
Quindi: io suono e canto. Se non mi è possibile, lavoro con uno strumentista. Inizialmente il mio lavoro consiste nell'entrare in contatto con i modi di esistenza del suono (stati, movimenti, trasformazioni etc.) come se io ignorassi completamente la loro natura, i limiti, le caratteristiche. Se questo contatto è condotto con rigore, disciplina e creatività, tutto (anche il suono più tradizionale) è anche una scoperta, e i limiti di questo lavoro non sono prefissati: questo è il punto essenziale.

Fondamentalmente, dato che non riconosco alla tecnica tradizionale il “monopolio” del rapporto con il suono, per me esistono solo nuove tecniche, una di queste è quella tradizionale e non è la più importante. E, infatti, spesso non uso strumenti tradizionali.

Ho sviluppato negli anni un metodo di lavoro dove la conoscenza del repertorio, la pratica dello strumento (studio e improvvisazione), l'esplorazione strumentale sistematica, la formalizzazione dei risultati, lo studio e sviluppo della notazione, la concezione e il progetto compositivo sono da subito integrati e inseparabili.

 

L.F. In Kosmoi. Fragmente la voce è essenzialmente senza testo. Perché ? Diffida di un senso troppo immediato, che determinerebbe l'ascolto a priori?

P.B. Canto e parola sono due dimensioni diverse e stanno in un rapporto delicato: si tratta sempre e solo di un incontro possibile e in modi molto diversi. La cultura e la pratica tradizionale lo mostrano e lo insegnano, poi c'è tutta l'inquietudine sperimentale e il disorientamento (europeo) del XX. Secolo.

Quando la parola appare e impone il suo ritmo e respiro di esistenza (articolazione- comprensione), oppure come oggetto estraneo “marcatore”, il canto diventa inevitabilmente “Voce” e tutto il resto recede a sfondo secondario (rapporto che qui non interessa). In Kosmoi. Fragmente non c ́e ́un testo pre-esistente al canto. Quindi questa separazione iniziale e l ́incontro successivo non accadono. C'è qualcosa di più importante che deve accadere: l'essere umano che canta e agisce, è parte (non privilegiata) dell ́orizzonte di fonti sonore, che è uno spazio “rituale” (dove ciò che appare e si mostra ha un senso esemplare). In molte parti il canto non ha bisogno di un testo:
la sua esistenza è compiuta e autonoma, come qualsiasi altra parte strumentale.

Ne 'interessa la parola come riferimento letterario (cornice di riferimento). La parola, quando appare nella Litania centrale, è una qualità particolare dell’articolazione del canto, in alcuni istanti sembra appartenere a una lingua nota (indecifrabile, quindi immediatamente percepita come “nascosta” e rituale), ma resta inattiva, non è il centro di gravità, non impone il suo ritmo, è presa nel ritmo.

Una Litania infatti è un (luogo del) canto dove la parola viene accolta, e la cui essenza si mostra:

  1. Nel suo restare chiuso nel corpo, inudibile ad altri o parte integrata nell ́orizzonte
  2. Nella sua momentanea assenza
  3. Nell ́isolamento di un singolo gesto di canto - che consiste di un impulso del diaframma, di per sé già pieno di tutto il significato della vita e che può fare affiorare un nome (o no)
  4. Nella ripetizione ossessiva e monotona, una catena fluente d’impulsi elementari. Qui la parola e ́solo affioramento e “profilo” momentaneo del canto.

 

L.F. Sarebbe esatto riconoscere nella sua attenzione al minuto, allo stupore, all'assenza, alla “attenuazione delle tracce”, come lei scrive, se non al vuoto, una dimensione spirituale?

P.B. Per quanto riguarda me stesso direttamente, credo sia giusto non rispondere. Per chi incontra il mio lavoro accade o non accade, ma in quale modo e con quali conseguenze non mi e'dato di sapere e di influenzare. Posso solo lavorare per creare uno spazio dove questo potrebbe accadere...

 

L.F. I titoli dei suoi lavori, spesso costituiti da due nomi separati da un punto, testimoniano con evidenza il suo interesse per le arti plastiche: Matta, Long, e in Muri III b Federico De Leonardis. Cosa indicano in ciascuno di questi lavori, e in particolare in Muri III b? E quali sono i tratti salienti di questo quartetto d'archi cui sta lavorando?

P.B. Richard Long camminava o spostava pietre (solo oggi fa dei lavori fissi in gallerie o all'aperto), la traccia lasciata dai suoi piedi era l'opera (A Line in Bolivia, Long Circle Scotland).
Gordon Matta-Clark faceva dei buchi e dei tagli (splitting) giganteschi nelle case in demolizione. Federico De Leonardis crea relazioni rivelatrici con oggetti pre-esistenti, in genere trovati in zone industriali (Muri III, Muri IV).

Quindi: non siamo nelle arti “plastiche” e soprattutto non siamo nella produzione di oggetti. Il primo motivo d’interesse è una vicinanza e una riconoscenza a queste forme non ortodosse e diverse di spiritualità, e quindi i titoli sono un omaggio esplicito. Il secondo punto è il tentativo di una corrispondenza poetica e visionaria.

Semplifichiamo: questo avviene attraverso una domanda-guida (formulata come un enigma) che fa da apertura e orientamento a tutto il lavoro e che quindi è più decisiva di qualsiasi struttura, ma aperta come ogni vera domanda. Questa domanda ha il compito di guidare l ́attenzione creativa a percepire tutto come una traccia possibile della dimensione da aprire (che ignoro).

-“Cammina nel suono, dove arrivi quando sei oltre il silenzio?” -Nel rito (Mani. Long)
-“Come opera il vuoto nel movimento?” -Lo devia (Mani. Matta)
-“Come si conserva in una corda l ́energia di un movimento?” -Vibra (Muri III b)

Attorno a Muri III b:
dalla pratica degli strumenti ad arco ho imparato a separare e a coordinare in modo diverso l ́azione delle due mani (che invece nella tecnica classica cooperano per ottenere un unico risultato). Attraverso semplici soluzioni tecniche è quindi possibile modulare indipendentemente la quantità di energia prodotta dal contatto dell ́arco con la corda e il tipo e la qualità di articolazione della mano sinistra.

A questo punto si ottengono gradi e qualità di energia che sono al tempo stesso qualità interna della vibrazione e/o dell’articolazione. Ne consegue che la qualità plastica di un evento può essere considerata in certe condizioni un grado di energia.

Questo fenomeno meccanico energetico è anche una relazione possibile: una vibrazione statica è (può essere) il grado minimo energetico di una articolazione e viceversa una articolazione il grado massimo energetico di un'unica vibrazione.

E questa differenza di stati (energetica/plastica) può essere modulata istantaneamente o attraverso un grado indefinito di deformazioni.
Il suono così pensato ha quindi delle dimensioni, degli strati e degli stati la cui natura è indefinita, e aperta a una elaborazione ritmica indefinita. Può essere paragonato genericamente alla materia e alla sua varietà di stati (solido, liquido, gassoso etc.).

Lo “spazio sonoro” che ne deriva ha quindi leggi e caratteristiche completamente diverse da quello tradizionale ma può contenerlo come caso particolare (stabilità/omogeneità momentanea). Il Quartetto d'archi in questo caso diventa una “macchina” energetica magica e abbandona i suoi ruoli tradizionali (e per questo prevede anche delle scordature significative, al 2. Violino e al Violoncello).

Il lavoro si articola in 5 momenti (connessi a vari gradi fra di loro), ciascuno dei quali centrato in modo diverso sulle possibilità di aggregazione-deformazione delle vibrazioni.

  1. Compressione / Strati / Tracce di presenze meccaniche
  2. Decompressione / Doppio Polo inerte / Strati
  3. Instabilità / Oscillazioni Plastiche metalliche / Strati
  4. Isolamento delle Fonti / Doppio Polo fisso / Instabilità
  5. Compressione / Articolazione interna elementare (battimenti)

Una rigorosa omogeneità plastica è la condizione necessaria perché la deformazione operi. Continuità e trasformazione costanti sono bilanciate dalle ripetute interruzioni e “dissolvenze” al silenzio (... il momentaneamente inudibile, dove la deformazione continua a operare). Instabilità ritmica, staticità imprevedibile, eccessi energetici momentanei, scarsa udibilità momentanea, etc. sono tutte caratteristiche ritmiche di una disomogeneità fondamentale, dove vige e opera la deformazione.

 

L.F. La sua musica aspirerebbe ad una evocazione visuale, come denotano la sua trasparenza e opacità, il nascosto e il manifesto, i pieni e i vuoti che si dispiegano, ossia l'opera come un luogo, e più metaforicamente senza dubbio, il suo procedere come un cammino?

P.B. Non direi. Nelle mie intenzioni non c' é nessuna evocazione visuale voluta, ed è una prospettiva che non m'interessa. Trasparenza, opacità etc. sono tutti stati originali e compiuti del suono, è vita propria del suono.

Per Luogo e Cammino vale quanto ho detto in una precedente risposta.

 

L.F. Un termine che si incontra piuttosto spesso nelle sue riflessioni : quello di emozione – l'affetto, ovverosia il pathos. Potrebbe chiarire che senso da'a questo termine? Helmut Lachenmann, in un testo scritto su di lei, evoca una bellezza della sua arte, disponibile “al rischio, al sacrificio e ad una certa felicità”. E ́questo da cui deriva la sua musica?

P.B. Gli esseri umani, le cose, i suoni, i pensieri, tutto, sono viventi e ci attraggono con la loro “forza di gravità”, ci mettono in movimento e noi entriamo nel mondo ritmico della loro dimensione. Questo è per me l'emozione: un richiamo fortissimo che genera un movimento di trasformazione. In questo caso l ́uomo si lascia attraversare dall’energia vitale che sgorga dalla fonte (un essere umano, una concezione, un progetto, una cosa, una montagna, un viaggio etc.) oppure lascia che la fonte attragga le sue energie.

L'emozione riconosce il richiamo ma non conosce il proprio scopo, come sapevano benissimo gli antichi... La trasformazione che si genera però annulla i limiti, e implica la rinuncia iniziale alle difese.

L'emozione è quindi un nutrimento irrinunciabile e anche un’incertezza per la sopravvivenza. (A me è capitato di dedicare tre anni di lavoro per seguire fin dove possibile il richiamo di un suono. Non è un’esperienza che si possa ripetere spesso).


 

Le son est ma matière 2010

Entretien avec Pierluigi Billone

 

L.F. Vous avez étudié avec deux maîtres du son, Salvatore Sciarrino et Helmut Lachenmann. Qu’avez-vous recherché auprès d’eux et que vous ont-ils enseigné?

P.B. J’ai rencontré Sciarrino au début des années 1980. À cette époque, à Milan, son travail était pour de nombreux étudiants un exemple de liberté créative. Sciarrino gardait un «secret»: une sensibilité et une attention qui créent librement leurs propres objets, ainsi qu’un formalisme très rigide et abstrait (son intérêt pour Mozart, l’influence de Ravel). Mais une fois que l’on avait compris cela, il était opportun et nécessaire de s’éloigner.

Au début des années 1990, j’ai suivi les cours de Lachenmann, à Stuttgart. Je savais que je devais laisser se développer en moi un côté plus réflexif. Un «pathos» de la réflexion, que je retrouvais justement sous diverses formes chez Lachenmann, Stockhausen, Xenakis et Nono. Une rencontre et un rapport importants et décisifs pour moi. Lachenmann est un authentique érudit et une personne à l’horizon intellectuel très vaste et ouvert. Lachenmann aussi gardait un secret (différent de celui de Sciarrino), qu’il fallait percer : toute vibration peut être un centre de relations, mais vous devez vous ouvrir pour l’écouter (et écouter votre écoute...).

Sciarrino et Lachenmann sont deux relations personnelles et professionnelles directes. Mais l’influence la plus profonde et décisive à tous les niveaux me vient des années au cours desquelles j’ai étudié seul les musiques extra-européennes (surtout le solisme – la musique soliste- et les musiques rituelles), le free jazz des années 1960 et ses développements ultérieurs, les rock des années 1970 (que j’ai joué), le solisme expérimental, les sommets de la chanson d’auteur de tous horizons, et – même si cela peut sembler surprenant – les œuvres d’Andreï Tarkovski.

 

L.F. Vous vivez actuellement à Vienne. Quelles raisons vous y ont conduit?

P.B. De 1991 à 2000, j’ai vécu et travaillé en Allemagne. En 2000, je suis rentré en Italie et j’ai constaté que je n’avais aucune possibilité d’y travailler comme compositeur. En 2004, j’ai quitté mon pays pour la seconde fois. J’ai choisi Vienne où j’avais des attaches personnelles et professionnelles très fortes avec les musiciens de l’ensemble Klangforum Wien, et où la vie musicale est intense et intéressante. Quand je vois la situation culturelle et politique italienne, oppressante et écœurante, je me dis que j’ai fait le bon choix.

 

L.F. La main tient chez vous un rôle essentiel, dans vos titres et dans l’écriture des percussions, frappées avec les doigts, la paume, les articulations, tout autant qu’avec les baguettes. Mais vous évoquez aussi une « intelligence de la main ». Qu’entendez-vous par cette expression?

P.B. La main est un lieu privilégié de contact avec le monde. Tous les êtres humains sont et connaissent cette expérience. L’activité de la main est un exercice muet (Merleau-Ponty) et se produit à un niveau préconscient et à une profondeur que l’exercice d’un contrôle conscient pourrait seulement déranger, dévier ou redéfinir (mais à un niveau moins profond). Il s’agit donc d’un mode particulier de contact avec le monde (sauf à vouloir considérer la main comme un simple outil dont dispose le cerveau : perspective stérile). La main (comme pôle du corps entier), par exemple, ouvre et entre en contact avec des états du son qu’aucune théorie ne pourrait jamais imaginer. Il en va de même pour les liens et les relations possibles. Étant donné que, pour un compositeur, la main qui écrit (pense) et celle qui joue sont la même, la question se pose d’un équilibre et d’une unification : celle-ci se produit quand tombe la dichotomie pensée / pratique. À ce stade, la «pensée» se confond avec le contact avec les choses et perd ses propres limites (capacité de contrôle et définition) et la «main» rencontre et crée des liens, mais la culture occidentale refuse généralement cette perspective. «Intelligence de la main» indique alors cette unification (comme question ouverte).

 

L.F. Quel est, dans ce contexte, le statut du geste dans votre écriture?

P.B. Le « geste » est aujourd’hui (selon moi) une notion ambiguë (Stravinsky ou Webern ne l’auraient pas comprise), qui n’est entrée que récemment dans le vocabulaire musical, en provenance de celui des arts visuels et plastiques. Dans un contexte mécanico-acoustique (transformation), je pense qu’elle perd son sens. C’est la raison pour laquelle je préfère ne pas utiliser ce terme, et je ne répondrai donc pas directement à votre question.
J’apporte seulement ces précision générales et indirectes.

  1. Dans mon travail, le corps est la matrice dynamique de tout mouvement possible (et il refuse donc ceux qu’il ressent comme étrangers), mais ses actions ou ses rythmes élémentaires ne deviennent pas nécessairement un modèle pour des signes stylisés (la respiration, l’impulsion, le contact...). Ce qui m’intéresse, c’est d’élargir le plus possible les limites rythmiques et motrices du corps, de les confondre presque. Cette appartenance à la vie rythmique du corps (même si, dans certains cas, elle n’est pas immédiatement reconnaissable) fonde la possibilité d’une compréhension immédiate au même niveau : le corps correspond / rencontre quelque chose qu’il pourrait faire. Ce premier niveau de contact est essentiel.
  2. De nombreuses actions instrumentales peuvent être transposées et s’échanger entre elles avec des résultats surprenants (qui créent des liens et des relations).
  3. En effet, nombre d’actions du corps produisant des sons appartiennent simultanément à des contextes aux réalités différentes, de même que le son n’est pas la propriété exclusive de la musique. En travaillant sur la flexibilité, le double et l’ambiguïté de ces actions, il est possible de créer de précieux points de contact entre ces réalités : dans ce cas, ce sont les actions proches de celles de la ritualité religieuse ou des pratiques de métiers artisanaux qui m’intéressent. Ces actions ne sont jamais isolées et affichées, mais au contraire intégrées avec la plus grande organicité. C’est aussi une manière de forcer les limites du corps (et du contexte).
  4. De manière complémentaire, m’intéressent aussi les sons et les états du son qui adviennent dans une apparente absence de mouvement (Mani.Long, à la mesure 588, l’onde de voix en l’absence de toute action visible), ou le transfert d’actions instrumentales dans le corps (Mani.Long, à la mesure 636, le « chœur » instrumental).

 

L.F. L’une des caractéristiques, à l’écoute, de votre œuvre, c’est le temps de son déploiement. Je pense surtout à Mani.Long. Qu’attendez-vous que la durée révèle du son et de la forme?

P.B. Je ne pense pas que le son se scinde en paramètres, et ne distingue donc pas la durée comme une composante autonome. Un son dure le temps nécessaire à son existence (quelle qu’elle soit) et au jeu de ses relations. Qui en décide ? Selon quel principe ? Trente années d’étude, de pratique, de discipline et de travail. L’existence d’un son et sa possibilité de relation sont expérimentées à chaque fois. Le son est ma matière. Je suis en rapport avec le son, qui est la dimension privilégiée selon laquelle je rencontre les choses et le monde. Chaque fois, je mets donc en jeu toute ma confiance dans cette dimension. Si je me trompe, il s’agit d’une erreur globale qui, dans ce cas aussi, indique mon rapport fondamental avec le son. Par cette expérience, je deviens conscient de mon appartenance à la réalité rythmique dans laquelle j’existe. La mesure (la qualité et le sens) de cette expérience du son est complètement liée à la réalité (musicale au sens strict et sonore en général) dont je fais partie, et devient donc une trace pour la comprendre.

Pour cela:

  1. Je ne pose pas de limites préalables à ce que ma sensibilité peut me faire rencontrer.
  2. Je connais et limite l’influence rythmique momentanée du milieu sur moi (et je sais donc quelle limite «normale» et commune je dépasse quand quelque chose semble «trop long»).

 

L.F. L’écoute de vos œuvres n’implique pas seulement l’oreille, mais l’ensemble du corps, dont la respiration. Recherchez-vous effectivement une telle intensité physique de l’expérience?

P.B. Certainement. Une intensité physique, mais aussi une réelle profondeur de contact. En présence du son, le corps (avec son jeu de rythmes internes) s’harmonise (ou réagit) complètement avec ce qui advient. Il s’agit d’un contact global et indivisible, mais qui, dans l’écoute habituelle de la musique classique occidentale, se fait désormais dans une condition particulière : toute la correspondance motrice du corps avec le son est atténuée ou inhibée.

Au Moyen Âge, en Occident, l’écoute était uniquement «écoute de la musique sacrée» et ne se distinguait pas de l’écoute de la parole liturgique. Maintenant, elle est très proche de la contemplation visuelle (complètement passive) exercée à partir d’un point fixe. La reproduction mécanique du son a complété le processus d’évidement de l’expérience.

Dans ces conditions, il semblerait évident que l’écoute consiste seulement à laisser fonctionner les oreilles pour permettre au cerveau d’entrer en contact avec le son. Cette perspective est complètement erronée et témoigne d’une grave perte de sensibilité et de profondeur dans le rapport avec les choses. C’est comme si on réduisait le fait de manger (le rapport conscient et actif avec la nourriture) au seul fait d’ouvrir la bouche, de rester immobile et d’avaler. Il est évident que le son, dans notre culture classique occidentale, est désormais pensé «sans lien avec les exigences de survie». Il se rencontre donc avec des facultés corporelles secondes (et court le risque de rester une expérience de second ordre), c’est ce qui provoque une indifférence diffuse. La définition de l’écoute comme «faculté mentale d’entendre des sons organisés par l’homme», dont parlait Stockhausen au début des années 1950 et en 1972 encore, est ridicule, et les choses ne semblent d’ailleurs pas s’être améliorées. Les cultures traditionnelles sont beaucoup plus profondes.

 

L.F. Vous avez souvent recours à des instruments graves – notamment la clarinette basse, le basson ou le trombone. Que dénote cet usage de timbres si profonds?

P.B. Je n’ai pas d’intérêt en soi pour les instruments extrêmement graves (clarinette contrebasse, tuba...) ou aigus (piccolo....). Le trombone, la clarinette basse... ne sont considérés comme graves que dans l’orchestration classique d’école. Dans la pratique, c’est autre chose.

Ma référence générale est souvent le chant : une voix d’homme au registre très large, donc un registre grave étendu et un registre aigu sans limites préétablies (je pense à Spiros Sakkas, interprète de Xenakis, aux chanteur nomades de Mongolie, à Bobby Mc Ferrin...). De cette manière, l’instrument se libère du registre-rôle assigné par la tradition et devient un espace extrêmement articulé qui contient au moins les deux polarités fondamentales minimales (le grave «masculin», l’aigu «féminin», et beaucoup d’autres). Un violoncelle peut donc être aussi un violon, une clarinette basse une clarinette piccolo, mais pas le contraire. Ensuite, il y a des raisons strictement techniques et acoustiques, par exemple : un instrument grave est évidemment plus riche en harmoniques et en vibrations non homogènes qui peuvent être manipulées, son registre aigu est toujours particulier et instable, il a des zones «sourdes» très précieuses... Dans le même sens, j’utilise deux instruments différents pour en former un troisième, nouveau (trombone + hautbois = «tromphautbois»), ou encore deux instruments identiques pour libérer le son du conditionnement mécanique d’une seule source.

 

L.F. Diriez-vous que votre musique se fonde sur des énergies, desquelles naîtraient la forme?

P.B. Je concentre des énergies, littéralement : je crée des centres d’attraction par des énergies sonores et par la vie des relations qu’elles peuvent créer et entretenir.

Dans la vie initiale du son, je rencontre et reconnais des lignes de force, des tendances reconnaissables, des liens possibles qui deviennent les premiers points de force d’une construction : c’est comme une loi qu’il faut connaître et respecter.

Dès que je la connais, je peux l’utiliser à des fins différentes : le principe constant de transformation relie chaque état à un autre, mais grâce à des chaînes de transformations ou à des mouvements instantanés de transformation, ce qui est lié peut être tout autre et très éloigné. Les états et les situations qui se produisent restent identifiables comme appartenant à la nature initiale du son, mais il s’agit parfois d’apparitions complètement artificielles, abstraites et visionnaires.

Ainsi se crée un paradoxe apparent : tout procède par transformation évidente vers un autre degré, mais ce qui apparaît – à une première écoute – peut sembler étranger. Comme si un homme marchait sans s’arrêter, mais dans un espace qui changerait : au terme d’un pas, distance minimale reconnaissable et référentielle, son pied prend appui sur un espace inconnu.

Nous avons donc un « devenir » mettant en contact des « moments », qui sont des « stations », font apparaître des hiérarchies et des relations, montrent un ordre et une hiérarchie spatiale. C’est réel et cela repose sur l’expérience du pas et de la marche que nous connaissons tous et que nous pouvons donc comprendre sans aucune difficulté à l’écoute. Mais le langage descriptif a du mal à le cerner et croit donc que ce n’est qu’une métaphore parmi d’autres... C’est un problème du langage : il doit se modifier jusqu’à pouvoir le dire (Merleau-Ponty en était capable). Cette sensibilité me vient directement de l’étude de la technique d’Andreï Tarkovski (dans Stalker, par exemple).

 

L.F. Le silence y tient-il un rôle, comme ouverture?

P.B. Il y a trop de rhétorique autour du silence et beaucoup de choses ont déjà été dites et faites. Je n’ai probablement rien de particulier ou d’original à ajouter en ce moment.

 

L.F. Dans votre écriture instrumentale, les modes de jeu traditionnels forment sinon des exceptions, du moins des possibles, parmi bien d’autres. Comment recherchez-vous de nouvelles techniques instrumentales et comment les inscrivez-vous dans un langage musical?

P.B. Je travaille sans cesse en contact direct avec l’instrument. Donc : je joue et je chante. Si ce n’est pas possible, je travaille avec un instrumentiste. Au début, mon travail consiste à entrer en contact avec les modes d’existence du son (états, mouvements, transformations...) comme si j’ignorais complètement leur nature, leurs limites, leurs caractéristiques. Si ce contact est conduit avec rigueur, discipline et créativité, tout (y compris le son le plus traditionnel) est aussi une découverte, et les limites du travail ne sont pas préétablies : c’est le point essentiel.

Fondamentalement, étant donné que je ne reconnais pas à la technique traditionnelle le « monopole » du rapport avec le son, il n’existe pour moi que des techniques nouvelles, parmi lesquelles la technique traditionnelle, qui n’est pas la plus importante. Et, en effet, il m’arrive souvent de ne pas employer d’instruments traditionnels.

Avec le temps, j’ai développé une méthode de travail où la connaissance du répertoire, la pratique de l’instrument (étude et improvisation), l’exploration instrumentale systématique, la formalisation des résultats, l’étude et le développement de la notation, la conception et le projet compositionnel sont immédiatement intégrés et inséparables.

 

L.F. Dans Kosmoi.Fragmente, la voix est essentiellement sans texte. Pourquoi? Vous méfiez-vous d’un sens trop immédiat, qui déterminerait a priori l’écoute? Que lui confiez-vous?

P.B. Chant et parole sont deux dimensions différentes et entretiennent un rapport délicat : il s’agit toujours et seulement d’une rencontre possible et selon des manières très différentes. La culture et la pratique traditionnelles le montrent et l’enseignent. Il y a ensuite toute l’inquiétude expérimentale et la désorientation (européenne) du XXe siècle.

Quand la parole apparaît et impose son rythme et la respiration de son existence (articulation- compréhension), ou se fait objet étranger « marqueur », le chant devient inévitablement « voix » et tout le reste revient à un fond secondaire (un rapport qui ne nous intéresse pas ici).

Dans Kosmoi.Fragmente, il n’y a pas de texte préexistant au chant. Cette séparation initiale et la rencontre ultérieure ne se produisent donc pas. Ce qui doit se produire est plus important : l’être humain qui chante et agit est une partie (non privilégiée) de l’horizon de sources sonores, qui est un espace «rituel» (où ce qui apparaît et se montre a un sens exemplaire). Dans de nombreuses parties, le chant n’a pas besoin d’un texte : son existence est accomplie et autonome, comme n’importe quelle autre partie instrumentale. La parole comme référence littéraire (cadre de référence) ne m’intéresse pas. La parole, quand elle apparaît dans la litanie centrale, est une qualité particulière de l’articulation du chant. À certains moments, elle semble appartenir à une langue connue (indéchiffrable, donc immédiatement perçue comme «cachée» et rituelle), mais reste inactive, n’est pas le centre de gravité, n’impose pas son rythme, est prise dans le rythme. Une litanie est en effet un (lieu du) chant où la parole est accueillie, et dont l’existence se montre : 1. comme restant recluse dans le corps inaudible à d’autres ou partie incluse dans l’horizon; 2. dans son absence momentanée; 3. dans l’isolement d’un seul geste de chant – qui consiste en une impulsion du diaphragme, en soi déjà plein de toute la signification de la vie et qui peut faire affleurer un nom (ou pas) ; 4. dans la répétition obsessionnelle et monotone, une chaîne souple d’impulsions élémentaires, où la parole est uniquement affleurement et «profil» momentané du chant.

 

L.F. Serait-il exact de percevoir dans votre attention à l’infirme, à l’effacement, à l’absence, à l’«atténuation des traces», comme vous l’écrivez, sinon au vide, une dimension spirituelle?

P.B. En ce qui me concerne, je crois qu’il vaut mieux ne pas répondre. Pour ceux qui rencontrent mon travail, cela arrive ou pas, mais de quelle façon et avec quelles conséquences, je n’ai pas la possibilité de le savoir ni de l’influencer. Je peux seulement travailler pour créer un espace où cela pourrait se produire...

 

L.F. Vos titres, souvent constitués de deux mots séparés par un point, témoignent volontiers de votre intérêt pour les arts plastiques : Matta, Long, et dans Muri III b, De Leonardis. Qu’en est-il dans chacune de ces œuvres et plus particulièrement dans Muri III b? Et quels sont les traits saillants de ce quatuor à cordes, dont vous venez d’achever la composition?

P.B. Richard Long marchait ou déplaçait des pierres (aujourd’hui seulement, il fait des œuvres fixes dans des galeries ou en plein air), la trace laissée par ses pieds était l’œuvre (A Line in Bolivia, A Circle in Scotland).

Gordon Matta-Clark faisait des trous et des coupes (splitting) gigantesques dans des maisons en démolition. Federico De Leonardis crée des relations révélatrices avec des objets préexistants, généralement trouvés dans des zones industrielles (Muri III, Muri IV). Nous ne sommes donc pas dans le domaine des arts « plastiques », et surtout, nous ne sommes pas dans la production d’objets.

Le premier motif d’intérêt est une proximité et une reconnaissance de ces formes non orthodoxes et autres de spiritualité. Les titres sont donc un hommage explicite. Le second est la tentative d’une correspondance poétique et visionnaire. Simplifions : cela se produit par le biais d’une question-guide (formulée comme une énigme) qui sert d’ouverture et d’orientation à tout le travail et est donc plus décisive que n’importe quelle structure, mais reste ouverte, comme toute véritable question. Cette question a le devoir de guider l’attention créative et de l’inciter à tout percevoir comme une trace possible de la dimension à ouvrir (que j’ignore).

«Marche dans le son, où arrives-tu quand tu es au-delà le silence ?» – Dans le rite (Mani.Long).

«Comment le vide opère-t-il dans le mouvement ?» – Il le dévie (Mani.Matta).

«Comment l’énergie d’un mouvement se conserve-t-elle dans une corde ?» – Elle vibre
(Muri III b).


Quelques mots sur Muri III b. De la pratique des instruments à cordes, j’ai appris à séparer et à coordonner différemment l’action des deux mains (alors que dans la technique classique, elles coopèrent en vue d’un même et unique résultat). À travers de simples solutions techniques, il est donc possible de moduler indépendamment la quantité d’énergie produite par le contact de l’archet avec la corde, et le type et la qualité d’articulation de la main gauche. On obtient alors des degrés et des qualités d’énergie qui sont à la fois qualité interne de la vibration et/ou de l’articulation. Il s’ensuit que la qualité plastique d’un événement peut être considérée dans certaines conditions comme un degré d’énergie. Ce phénomène mécanique énergétique est aussi une relation possible : une vibration statique est (peut être) le degré énergétique minimum d’une articulation, et inversement, une articulation, le degré énergétique maximum d’une unique vibration. Et cette différence d’états (énergétique / plastique) peut être modulée instantanément ou à travers un degré indéfini de déformations.

Ainsi considéré, le son a donc des dimensions, des niveaux et des états dont la nature est indéfinie, et ouverte à une élaboration rythmique indéfinie. On peut le comparer génériquement à la matière et à sa variété d’états (solide, liquide, gazeux...). L’«espace sonore» qui en dérive a donc des lois et des caractéristiques complètement différentes de l’espace traditionnel, mais il peut néanmoins le contenir comme cas particulier (stabilité / homogénéité momentanée). Dans ce cas, le quatuor à cordes devient une «machine» énergétique magique et abandonne ses rôles traditionnels (et pour cela, il prévoit aussi des scordature, des désacordages significatifs, au second violon et au violoncelle).

Le travail s’articule en cinq moments (liés entre eux à différents degrés), dont chacun est centré de manière différente sur les possibilités d’agrégation-déformation des vibrations.

  1. Compression / Strates / Traces de présences mécaniques.
  2. Décompression / Double pôle inerte / Strates.
  3. Instabilité / Oscillation plastiques métalliques / Strates.
  4. Isolement des sources / Double pôle fixe / Instabilité.
  5. Compression / Articulation interne élémentaire (battements).

Une homogénéité plastique rigoureuse est la condition nécessaire pour que la déformation opère. Continuité et transformation constantes sont compensées par les interruptions répétées et les « fondus » en silence (...le momentanément inaudible, où la déformation continue tout de même à opérer). Instabilité rythmique, staticité imprévisible, excès énergétiques momentanés, faible audibilité momentanée... sont autant de caractéristiques rythmiques d’une non-homogénéité fondamentale, où règne et opère la déformation.

 

L.F. Votre musique tiendrait-elle d’une évocation visuelle, que dénotent sa transparence et son opacité, le caché et le manifeste, les pleins et les vides qui s’y déploient?

P.B. Je ne dirais pas cela. Dans mes intentions, il n’y a aucune évocation visuelle voulue, et c’est une perspective qui ne m’intéresse pas. Transparence, opacité... sont des états originaux et achevés du son. C’est la vie même du son.

 

L.F. Un dernier mot, qui se rencontre d’ailleurs souvent dans vos écrits : celui d’émotion – l’affect, voire le pathos. Pourriez-vous nous expliquer le sens que vous donnez à ce mot? Helmut Lachenmann, dans un texte écrit en hommage, évoque la beauté de votre art, disponible « au risque, au sacrifice et un certain bonheur ». Est-ce cela aussi votre musique?

P.B. Les êtres humains, les choses, les sons, les pensées, tous sont vivants et nous attirent avec leur « force de gravité » et nous mettent en mouvement, et nous, nous entrons dans le monde rythmique de leur dimension. C’est cela pour moi l’émotion : un appel très fort qui génère un mouvement de transformation. Dans ce cas, l’homme se laisse traverser par l’énergie vitale qui jaillit de la source (un être humain, une conception, un projet, une chose, une montagne, un voyage...), ou bien il laisse la source attirer ses énergies. L’émotion reconnaît l’appel, mais ne connaît pas son propre but, comme le savaient très bien les anciens... Mais la transformation qui se produit annule les limites et implique le renoncement initial aux défenses. L’émotion est donc une nourriture indispensable, mais aussi une incertitude pour la survie. (Il m’est arrivé de consacrer trois ans de travail pour suivre aussi loin que possible l’appel d’un son. Ce n’est pas une expérience qu’on peut répéter souvent).


Traduit de l’italien par Chantal Moiroud